Etichettato: ti prego nazionale italiana perdi che ci leviamo dal cazzo anche questa roba

E questo te lo ricordi, Giannini?

A me il calcio non piace.
Non dico che fa schifo, ci sarebbe troppo trasporto e non ce l’ho proprio.
Mi limito ad ignorarlo, saltando le pagine dello sport tenendo con tre dita i fogli, fino a finire direttamente alle previsioni del tempo e alla pubblicità della borsa Gucci su sfondo bianco.
Nel 2006 avevo 24 anni e le cose non erano molto diverse.
Ai miei amici, al mio fidanzatino e a tutti quelli che mi circondavano ai tempi, il calcio piaceva.
Piacevano i mondiali, almeno. Si imbarazzavano anche loro quando qualcuno faceva: popopopopo saltando sul posto e facendo la bocca a forma di tubo innocenti.
A me piacevano loro e mi piaceva stare con loro. Tutto normale.
Quindi, alzando le spalle, mi presentavo pure io ai raduni di giubilo nazionalpopolare sportivo, mi sedevo da una parte e un po’ giocavo a snake e un po’ leggevo qualche rivista dove scriveva qualche sfigato che sembrava decisamente più vecchio della sua età.

Ero ancora carina, a quei tempi. Capitava pure che portassi le birre ai miei amici, tutti concentrati su quel televisore con il contrasto troppo alto. Non sempre, sarà capitato una volta, ma credo che abbia cumulato abbastanza punti “buonazione” per meritarmi uno sconto sul purgatorio.

La giornata della Finale erano tutti là, col divano messo a ferro di cavallo e la pizza ordinata da ore prima che altrimenti col cazzo che ce la portano. Con le magliette a righe rosse e nere, i jeans con il teschio disegnato sull’etichetta e le Converse e il disco dei Bombay Bicycle Club. Birre fresche ed entusiasmo per una delle partite più lunghe che io possa ricordare. Tant’è che decisi, dopo un tempo che secondo me si aggirava intorno alle 16 o 17 ore, di andare a sdraiarmi un momentino, solo per riposare gli occhi, solo un momentino, solo.

Che ore saranno state? Mezzanotte e mezza? Più tardi? Ecco, sento questo boato totale, queste urla disumane, questi rumori di festa dionisiaca e vagamente orgiastica, ma in senso molto maschio. Mi affaccio e chiedo:
“Oh, ma che minchia vi urlate così?”
“CAMPIONI DEL MONDO… CAMPIONI DEL MONDO… CAMPIONI DEL MOOOOOOOONDOOOOOOOOOO!!!”
“Cazzo.”
“ANDIAMO A SUONARE I CLACSOOOON! ANDIAMO A FEEEESTEGGIARE! CAZZOOOOOO! CAAAAAMPIOOOOONI DEL MOOOONDOOOO”
“Ma dove cazzo vogliamo andare, dai, che c’è un troiaio fuori. Stiamo a casa, dai. Io torno a dormire se non urlate troppo”
“CARICA TUTTE LE BIRRE IN MACCHINA! SONO FINITE? SI, MA CAAAAAMPIOOOOONIIII DEEEEL MOOOOONDOOOOOOO…EHHHH!”

Salimmo in macchina, in direzione Poetto, dove ci saremo uniti a questa festa collettiva, a questo baccanale orgogliosamente azzurro, a questo carnevale di patriottismo e alcolismo un po’ puzzone d’ascella.
Il fatto è che questa brillante idea non fu un’esclusiva dei miei amici.
Fu un pensiero abbastanza comune, vagamente poco originale.
Magari, ma è solo un’ipotesi, fu per quello che dopo trenta metri ci trovammo irrimediabilmente bloccati nel traffico.
Un’ipotesi, eh.

Ai miei amici, però non importava. Erano felici, erano sinceramente contenti, avrebbero spaccato tutto per ricostruirlo migliore ispirandosi al modello di una nazione forte, maschia e in calzoncini e calzettoni.
Chisseneffrega se siamo in mezzo al traffico, senza birra, è Luglio inoltrato e le zanzare ci stanno divorando a 30 metri da casa e dall’amico Autan.
Campioni del mondo, porco cazzo, campioni del mondo.
E poi, fanculo, dobbiamo stare in macchina?
Ma abbiamo il clacson, abbiamo le nostre voci, sveglieremo la città e sacrificheremo i primogeniti a Cannavaro.

E fu davvero così per la prima ora.
Un continuo flusso entusiasta di urla, cori, clacson, bandiere, amicizie eterne che nascevano da una macchina che sgasava in folle di fronte all’altra, promesse di fare dei figli entro l’anno e chiamarli Giggibbuffon.

Fu abbastanza così anche per la seconda ora.

Verso la terza, i toni si erano un po’ alleggeriti e il braccio che sventolava la bandiera iniziava a fare male, minchia tra un po’ sbrodiamo, ed “Eja, ma smettila di suonarmi in faccia ca sesi pighendu a scalloisi“.

Dopo tre ore e mezza arrivammo alla fine della strada, dove c’era la rotonda.
Lenti, tutti in fila, la facemmo in senso antiorario.
Trenta metri.
A casa.
Che forse non abbiamo guardato bene e sotto al cuppettone dev’essere rimasto un birroncino.