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Crackers e Mayonese

Un anno fa, più o meno, sono stata chiamata per un lavoro.
Uno di quelli per cui mando cv e non ricordo di averlo fatto, un po’ perché credo che nessuno mi richiamerà mai e un po’ perché ne mando davvero tanti e – quando sono depressa – applico anche per i posti da senior analyst a Chicago e vaffanculo.

Mi chiama tizio, mentre stavo cercando parcheggio tra gli arabi di Annessens e mi dice: il suo curriculum ci ha davvero colpito, inizi pure domani.
Come, domani?
Così?
Certo, mi dice, troverà la ragazza che deve sostituire che le spiegherà tutto.
Ma chi siete?
Siamo la ONG per l’Economia del Mondo Europeo alla Conquista dell’Universo e il nostro fondatore è Chirac.

Puttana troia, li googlo ed è tutto vero.
Il sito esiste, non è aggiornato ma esiste.
C’è pure la firma di Chirac e nel sito della CE ci sono tracce di milioni di euro che negli ultimi anni sono andati a finire nelle loro casse.
Milioni di euro, cazzo.

Chiamo mamma, babbo, zio, nonna che è morta ma deve rispondere. Deve. Che cose così non succedono tutti i giorni.
Mi depilo gli stinchi e mi faccio pure i baffi, senza convicermi che qua è grigio e nessuno li vede.
O no?

Non dormo, mi studio l’organico, mi studio i progetti, mi studio di nuovo il passato remoto di espellere che non lo so mai e neppure ho molto chiara la differenza tra potremo e potremmo.
Me l’ha sempre corretta Elisa, non posso farcela.

Arrivo quaranta minuti prima, nessuno risponde al campanello che poi manco c’è il nome dell’azienda, dell’ONG ma tizio in effetti mi aveva detto che si sarebbe trasferiti a breve e quindi, dai, va bene.

Due caffè al bar, troppo caffè, il cuore me lo sto per cagare addosso da quanto mi batte forte quando vedo una ragazza che armeggia con la porta.

Hey, le grido, sei tu quella del MECU?

Sì, bela appena, vieni Ambra. Mi hanno detto che ti devo consegnare la baracca in mano.

Prendiamo l’ascensore, poggiamo i cappotti all’ingresso, apre la porta.

L’ufficio è vuoto. Completamente. C’è una scrivania, una stufetta alogena, dei fogli per terra impilati e un estintore scarico. Fa un freddo porco e lei fa due passi, torna indietro e riprende il cappotto.

Accede il pc, in un foglio mi segna tutte le password. Anche quella della carta di credito del titolare. Mi mostra il bollitore che è in bagno, sul lavandino.

Se hai molto freddo, fatti un tè. Scalda un pochino. Io ho fatto così in queste tre settimane.

Tre settimane? Scusa? Cioè? Come?

Ho il caffè tutto in circolo, devo fare la cacca ma è evidente che in quel bagno ci sia il bollitore ma non la carta igienica.

La ragazza ha tutti gli occhi bagnati, come se fossero stati lavati da poco e singhiozza che ha resistito tre settimane, quelli prima di lei due. Sai di una che ha fatto addirittura sei mesi, ma nessuno sa veramente il suo nome.

Mi srotola un fiume in piena di parole: è tutto un imbroglio, quelle foto con Chirac sono state fatte durante un battesimo in Cornovaglia, non mettere nessuna firma o sei fottuta, non c’è organico: è solo uno che si finge tutto lo staff e guarda – apri la mail – chi ti ha scritto?

Leggo: Dorothy Perkins. Mi ha scritto Dorothy Perkins.

Tizio, il capo insomma, inizia a chiamare.
Chiede se sono arrivata, come sta andando, se domani posso raggiungerlo a casa, se dopo domani posso andare in Parlamento ad incontrare un MEP dei 5 stelle.
Faccio l’accento svedese, asciugo il lago di lacrime della ragazza e scivoliamo insieme in una pozza che finisce per impregnare tutti i fogli che sono per terra.

Sono fatture: auto, affitti, cancellerie, cene a Sorrento, una bici ad Anversa, un monolocale a Parigi. L’inchiostro è simpatico e sparisce perché non c’è proprio un cazzo da ridere.

Le dico: scappiamo. Ora, subito. Prima che arrivi.

Lei inizia ad affogare in tutte quelle lacrime ed è un soldato americano nei film del Vietnam. Vai avanti tu, sospira in khmer, io lo distraggo.

Scappo, le dico che porterò una bandiera dell’Anderlecht piegata in quattro a sua madre.

Tizio, il capo, prova a telefonarmi. Per almeno sei volte. Lo faccio parlare con la segreteria che non è di tante parole ma dice solo: Bonjour c’est le gsm d’Ambra.

Gli scrivo: Dorothy Perkins stocazzo. Da Dorothy Perkins ci lavorava un tipo con cui sono andata e ora ho dovuto cancellare il suo cazzo di Instagram perché è ricco e felice. Lo stronzo.

Mi richiama, mi dice: apprezzo molto la tua schiettezza, ti prego torna a Sorrento. Facciamo una fattura e la mando in CE, spese di cancelleria.

Lo blocco come su Black Mirror e mi fa scrivere anche da Penneys e Forever 21.

Arriva la bolletta, trecento euro che c’è il conguaglio.

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La storia è vera.
La storia in sé, dico.
Se qualcuno dell’antifrode vuole dati e mail, posso fare un delizioso WinRar. Però fate una donazione a quei poveri cristi degli sviluppatori.

 

 

 

To whom it may concern

Sono circa sei mesi che non scrivo proprio niente, per cui presumo sia abbastanza naturale quello che mi sta succedendo.

Probabilmente è pure qualcosa in più di sei mesi, senza contare le pessime cose che ho prodotto utilizzando gli scarti di momenti migliori.

Però, memore degli insegnamenti da sito per scrittori imbarazzanti e di qualche aneddoto su Stephen King che arriva da zone inesplorate del mio cervello (non avendo mai letto praticamente un cazzo di King e utilizzando i film tratti dai suoi libri per cavarmela in discussioni letterarie) mi sto obbligando a scrivere per un’ora circa.

Non ho pretese di riuscita, proprio per niente.

Un adorabile vuoto cosmico riempie il mio cervello e piuttosto che continuare a battere senza una particolare motivazione su questi tasti, sto riaggiornando la pagina face book circa tre volte al minuto. Sai mai che mi sia persa qualche gif di gattini interessantissima.

L’ultima volta che ho avuto alcuni rari sprazzi di ispirazione ero sballatissima, per cui – al ritornare della mia ragione – mi sono resa conto che scrivere un musical rap sulla prima volta che mi sono venute le mie cose non solo non è fattibile ma, diciamocela tutta, non è neppure particolarmente interessante per il prossimo (a meno che non si tratti di un pedofilo con una particolare predilezione per aspetti imbarazzanti della vita di un’adolescente, ma non credo di volermi affacciare su questa fascia di mercato).

Per cui oscillo, somigliando più che a un pendolo ad un filo che sporge da un abito made in China, tra l’annullamento produttivo dei social network a questa penosa pagina di nulla in corpo 11.

Sono al quinto piano della biblioteca reale brussellese, se a qualcuno dovesse interessare, affacciata sulla città che si sforza un sacco per impressionarmi e dirmi di scrivere, diossanto, smettila di scorrere i meme e guarda che bellezza tutte queste punte aguzze e le torri e le chiese e cristo ci manca solo che mi tiri fuori le tette per farsi vedere.

Invece no, continuo ad ignorare ogni segnale e concentrarmi sul niente.

Nel frattempo sono passati venti minuti e spero che la batteria si scarichi, il cavo del computer non funzioni o almeno la presa qua vicino non sia attiva. Così potrò tornare a casa, attaccarmi a Netflix e dirmi che ci ho provato, non è colpa mia.

Non so come tutto questo sia cominciato. Sono passata da una fase bulimica di scrittura ad un’anoressia nervosa e rabbiosa per cui mi nutro solo di penosi status su face book che prendono tutti i like giusti e mi danno la stessa capacità nutritiva di un bicchiere colmo di vasellina.

Probabilmente dopo la terribile pubblicazione dell’ultimo libro si è rotto qualcosa. Non è andato come pensavo. Non per colpa mia. I colpevoli ne sono a conoscenza e spero che il senso di colpa li divori per il resto dei loro giorni o che almeno abbiano passato cinque minuti di merda. Mi sono ritrovata svuotata, delusa e con quattro kg in più.

Magari non è manco quello. Forse ho semplicemente finito il rotolo di carta igienica di idee e incolpo l’universo intero senza pensare che non siamo tutti come Stephen King e soprattutto come è possibile che continui solo a pensare ad un autore di cui avrò letto forse mezzo libro?

Questa delle lettura, poi, è un’altra delle orribili cose che sono accadute nel processo letargico del mio cervello. Ho smesso di leggere. Sono sempre stata una che si faceva fuori un libro a settimana, senza andare a dichiararlo al mondo, postando penosi estratti di autori alla moda o link che dichiarano: sono così pazzerella che mi sdraio sul divano e leggo e non esco e guardatemi tutti, non sono per caso una ragazza che è davvero così alternativa?

Porca troia, che nervi. I clichè, ecco. I clichè mi hanno mozzato le mani e reso il cervello una palla di bicarbonato e aceto. Tutti i luoghi comuni sul come mi sarei dovuta comportare, agire, frequentare e parlare. Dire alla gente ‘’sono una scrittrice’’ sarebbe stato l’equivalente di infilarmi un ferro da stiro acceso su per il culo. Ho provato, eh. Ci ho provato qualche volta, in ambienti artistici in cui il bidello si definiva CDA dell’operation cleaning project e un rotto in culo qualsiasi era un performer. L’ho detto con una faccia che risulta molto simile a quella che può avere una persona costretta a succhiare un limone mentre guarda i genitori fare sesso.

Ora mi limito a dire che ho scritto delle cose, in passato. Dico che ho imparato a fare la barista, la baby sitter, l’insegnante per ricchi pezzi di merda minorenni, la venditrice di fumo e la repressa carica di rabbia per tutte le occasioni mancate. Quest’ultimo sentimento, in particolare, ha incrementato la mia produzione letteraria del meno quattordici milioni per cento, rassicurandomi costantemente che tutto potrebbe andare sempre e soltanto peggio.

Nel frattempo è passata quasi un’ora e mi sento abbastanza soddisfatta per aver passato solo 45 minuti a buttare la mia vita nel cesso. Ho deciso di pubblicare questo nel blog che ho giustamente abbandonato da anni, in modo che riceva lo stesso trattamento dei miei curricula inviati in aziende in cui speravo realmente di essere chiamata per un colloquio. Un enorme, sconfinato, spaziale e buio chittessencula.

Prima o poi riuscirò di nuovo a scrivere. O magari no. Rimarranno le tracce imbarazzanti del mio passato su google per cui, se volessi salvarmi dalla perpetua memoria delle mie mediocri pubblicazioni, dovrò muovermi a caricare filmati delle mie tette. O gif. Ecco, gif.

Perché mi chiedo se, in un futuro non troppo lontano, non sia meglio cercare il mio nome e trovarci collegato un link alle mie fighissime tette o un’intervista con troppo accento e troppe stronzate. Ho tette meravigliose, mentre la prosa risente decisamente di più della forza di gravità.

 

Ima areknames. Malha areknapes. Atenoip arret elevoun sisoprommatem ereitnorf alled etnem. Ocrop iod.

 

EPISODIO 1 – L’ARRIVO

Mettiamo che i protagonisti di questa storia si chiamino Matteo e Beatrice, così. Mettiamo pure che Matteo accetti di andare a lavorare gratis perché è uno  che si prende bene quando, nel mezzo del niente della provincia più bassa e gretta che caro Vasco vieni a cantare questa checcazzo Ferrara, succede qualcosa che coinvolge la musica, i ragazzi e l’arte. Mettiamo che Beatrice decida di accompagnare Matteo in questa spedizione a 80 km di distanza, perché è una stronza e ha già capito che –con quella concentrazione di fricchettoni, santoni del sabato pomeriggio, ballerine pancabbestia e sessantenni coi capelli lunghi e il riporto, ci sarà tanto da divertirsi.

EPISODIO 2 – IL FONICO

Matteo era arrivato da ormai quindici minuti e da almeno dieci veniva mandato, carico di tutto il suo materiale, da un lato all’altro del campo in cui si teneva l’evento. Spostati alla cala della luna, muoviti verso la terra delle stelle, secondo me potresti piazzarti nella piana dell’anima. Tutti questi posti coi nomi esotici e decisamente irritanti erano soltanto degli spiazzi che si aprivano tra lo stand del gruppo folk di San Nicolò Arcidano e il banchetto dell’Associazione ‘’Vogliamo La-vo-ro e lo vogliamo sbattendo il caschetto’’. Piazzato in uno a caso e avvisato di non avvicinarsi troppo ad una pianta perché ci avrebbe dovuto ballare una ballerina (tra l’altro, balla mentre tu suoni. Ma io sono suono, è field recording. Eja, ma tanto lei già fa tutto da sola), gli fu presentato il Fonico.
Il Fonico era un ragazzo sui trentacinque anni, molto magro e con un capellino da baseball liso in testa, che si accompagnava con un uomo poco più adulto i cui muscoli troppo gonfi gli impedivano di chiudere le braccia e probabilmente di far affluire abbastanza sangue al cervello. I due avevano un loro equilibrio nella comunicazione: quello secco parlava come un gabber a cui sa per schizzare la mascella da un momento all’altro, mentre quello gonfio evitava di parlare,preferendo esprimersi con dei rari grugniti. Il fonico entrò in agitazione appena vide Matteo: siccome non c’erano abbastanza prolunghe per attaccare le cose, gli spiegò con grossa difficoltà e una gran sudata che lui, un attempato deejay berlinese con un ridicolo panama bianco e il Re dei Fricchettoni, avrebbero dovuto concentrarsi in 1 mq perché
– No, cioè non hai capito zio, minca, non è che mi sposto le cose che è troppo un casino, capito che poi, no, zero, non fa, minchia che sono già a vaneggi, capito, tirati poco poco, eja, che ci mettiamo gaffa e fa a tenere il cavo tirato, molla stare il coso.
– Grnft.

EPISODIO 3 – IL GURU

Beatrice e Matteo, finito di sistemare il tutto, decisero che sarebbe stato carino vedere un po’ quello che succedeva intorno. Scampato per un pelo un ensamble di bonghettari degno del primo pomeriggio di un due giugno qualsiasi al Parco di Monteclaro, si ritrovarono di fronte al Guru.
Il Guru era un quarantenne barbuto e con una lunga coda scura, con un forte accento napoletano e degli ampi pantaloni in lino. Il Guru aveva un tamburello, un bastone della pioggia, un didgeridoo e delle palline di stoffa con dentro dei semini e le unghie dei piedi lunghe e nere, come quella storia che mi ha raccontato qualcuno che ad un tizio con le estremità dei piedi che parevano cozze fu dato il nomignolo di Lorenzo Lamas.
Il Guru era accompagnato da un sassofonista che aveva fatto il settantasette e ci era rimasto sotto male che, come spiegò a Matteo, ora campava di sussidi e della sua cover band anni ’80, sai col midi che è un problema spostarci in troppi, me lo paghi un caffè?
Il Guru iniziò a battere le dita sul tamburellino e a lallare qualcosa che suonava tipo:
Terra mia che è del cuore
L’anima cerca nel dolore
Io mi sento che la luna
è l’amica di fortuna

Intorno, stretti in cerchio, due decine di ultrasettantenni fissavano il Guru, scambiandosi  commenti del tipo:

– Eh, bravo. È poesia, è.

– Si, ma a me piace Nilla Pizzi

– Marietta, vai a vedere se stanno dando da mangiare che mi è salendo la glicemia.

Il Guru chiudeva gli occhi e si apriva tutti i chakra, tutti proprio, senza saltarne manco uno. Anche a costo di produrre rumori strani, ma che avrebbe fatto passare per il suono del didgeridoo.

EPISODIO 4 – LA CENA

Matteo e Beatrice riuscirono ad allontanarsi solo pochi secondi prima di essere travolti da centinaia di anziani inferociti: avevano aperto il buffet e non sarebbe sopravvissuto nessuno. Orde feroci di canuti maratoneti della brevissima distanza, agguantavano pezzi di pane, pizza, mortadella, formaggio e pane alla cipolla come se fosse l’ultimo pasto prima della fine della stagione delle piogge. Feroci fiere con le fauci grondanti olio e tammattiga, che sputavano brandelli di preda urlandosi da distanze brevissime ma pregne di corpi sudati, camicie buone conservate dal 1987 e tenalady messi poco bene, di prendere un altro pezzo di pane con le olive che poi finisce, fattene dare due che lo porto a casa.
Beatrice riuscì a scappare, prima che una nonna decidesse di aprirsi un varco fino al banchetto dei dolci di mandorla con la glassa, usando i suoi tre nipotini come scudo umano e come proiettili per lacerare le carni molli che le intralciavano il passaggio. Prese Matteo per mano e riuscirono a ritornare al  posto dove il Re dei Fricchettoni stava facendo il soundcheck.

EPISODIO 5 – IL RE DEI FRICCHETTONI

Khan Osho, come si faceva chiamare Filippo Denadai, era un musicista jazz senza molto talento che era andato una volta a Goa e si era preso una terribile gastroenterite e non era mai potuto uscire dal bungalow. Tornato in Italia, però, aveva raccontato di come l’incontro con Sai Baba gli avesse cambiato la vita e che avesse avuto la chiave del Nirvana dal cugino di secondo grado del Buddha che gli si era presentato sotto forma di scarafaggio d’oro con una corona di led che diceva Gautama Amanetta. Tornato al paesello si era costruito una carriera organizzando simposi di autocoscienza, workshop di contact e scuola creativa di anima e candele. Con le ultime elezioni comunali, suo cugino era diventato Assessore alla Cultura e gli aveva affidato la realizzazione del primo Festival di Musica, Natura, Arte e Creatività del paese. Gli aveva messo cinquemila euro in mano e Khan Osho ne aveva speso tremila per fare un flyer dell’evento in cui il grafico non aveva inserito i nomi dei partecipanti ma aveva lasciato in bella vista NOME COGNOME, altri mille e settecento per il service ed gli erano rimasti trecento euro per pagare i debiti col pusher che gli portava l’erba. Per cui, ormai nella merda fino al collo, chiese a musicisti e performers, fonico e signore delle pulizie di lavorare gratis, immolandosi all’altare della Cultura che in questa provincia disgraziata nessuno ci pensa più alla Cutura. E all’Arte. E all’Anima. E ai Khundalini.

EPISODIO 6 – FIGHT CLUB

Khan Denadai Osho e il dee jay berlinese col panama stavano viaggiando: completamente persi nella loro musica. Suonavano da mezzora, confondendo vecchiette e muovendosi a ritmo del respiro della Terra, quando il Fonico gabber gli si avvicinò e gli disse:

– Oh, signor Roscio, malaghe dovevi finire venti minuti fa che c’avevavavate mezzora a testa che ci sono i viggili che tocca finire a mezzanotte. Mì di non dimenticarti che c’è questo Matteo.

Osho ebbe un momento di rabbia. Come si permetteva di interromperlo? Lui, che stava illuminando quelle menti ottenebrate paesane con il verbo e la metempsicosi musicale. Di fronte a lui due signore si contavano quanti panini avevano arraffato dal buffet. Forse non era merito suo? Forse non era grazie a lui che era per loro il maestro che insegnava com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire? Non era grazie a lui che la loro parte assente si identificava con l’umidità? Il dee jay col panama guardava le tracce andare avanti su iTunes, mentre Denadai improvvisava a vuoto con un fagotto pieno di bava.
Dopo aver suonato per un’ora, sfiancato e soddisfatto come dopo un bell’orgasmo, chiamò Matteo e gli disse:
– Fratello, ho aperto le porte della percezione per te. Ora vai, fai vibrare i lori spiriti.

Matteo iniziò ad accendere i registratori, i computer e ad attaccare i cavi al mixer

– Cee, zio, ora tocca a te. O ma fai elettronica tipo storie di k2? Minchia bomba molto quello, ascolta, ma per le tue storie lo usi il subwoofer? Laghe  ti spaventi se spingi molto.

– No, sono a posto. Io comunque non suono, te l’ho detto. Ti scoccia togliere il gomito dal computer?

– Zeuro problems nenno, vai tranqua. Sono qua, fammi solo un chiamo.

Matteo, arrivato al minuto 2:08 della registrazione, allungò la mano per far partire il secondo registratore che avrebbe..
A quel punto sentì la mano del Re dei Fricchettoni sulla spalla.

– Scusa Matteo, da adesso hai ancora quattro minuti per finire. Mi dispiace, ma questi sono i tempi.

Matteo fece un respirone, guardò Beatrice e spense un computer. Poi l’altro. Poi il registratore e si mise in silenzio a riavvolgere i cavi. Il Re si avvicinò:

– Matteo, amico mio, non te la sei presa? Qui è una questione di coscienza. Io ho la coscienza a posto.

– Scusa? Cosa c’entra la coscienza? Non me la sono presa, semplicemente mi sono fatto cazzo di ottanta km, a gratis, per fare una cosa che mi avete chiesto e mi pare poco professionale, tutto qua. Ed io a queste condizioni blocco tutto.

– Fratello, la tua anima è ancora poco matura.

– Si, va bene. Ora però levati.

– Non essere ostile, ti percepisco.

– Senti, sono tranquillissimo. Voglio solo che mi lasci i coglioni in pace.

– Mi spiace, ma questa negatività ti fa male.

– Ma ti levi dal cazzo? Ma porca puttana, spostati cazzo che me ne voglio andare e basta.

– Sei un maleducato e un rude.

– Ti ho detto solo di non rompermi le palle, idiota di un rincoglionito…

Il Re rimaneva là, solo spostato verso un cespuglio, con tutta la fierezza del suo aver capito il mondo ripetendosi, come un mantra: tanto io ho suonato di più, gnegnegnegnegneee!

A quel punto arrivò il Guru, attirato dalla scena.

– Matteo?

– Si, per piacere, lasciatemi solo togliere la roba.

– Matteo?

– Guarda, davvero. Mollami un attimo.

– Matteo?

– Senti, per favore.

– Matteo?

– Oh, ma dio santo, ti levi anche tu dalle palle?

– Ma Matteo? Perché mi fai così? Perché Matteo? Noi non ci conosciamo neppure.

– Appunto, merda ma oggi hanno aperto le gabbie. Per piacere, ti prego, lasciami solo cinque minuti, cazzo.

– Matteo? Matteo.

Beatrice si avvicinò e prese Matteo per mano e lo portò lontano, da solo, per lasciarlo respirare un pochino. Il Guru rimase là, fissando la luna con gli occhi lucidi.

EPISODIO 7 – HAPPY ENDING o LA STRAGE (DA SOTTOPORRE AD APPROVAZIONE DEL PRODUTTORE)

Solo allora Beatrice prese la M7 che teneva in borsetta, diede un bacio sulla fronte a Matteo e iniziò a fare fuoco. Colpì alla nuca il Guru, che cadde immediatamente, poi si accanì sul viso del Re fino a ridurlo in poltiglia. Solo alla fine si dedicò al resto della gente, gambizzando indistintamente vecchi e bambini, trentenni annoiati e la ballerina che era ancora sull’albero aspettando il via per iniziare a ballare. Uno dietro l’altro caddero tutti. Si fermò solo quando ci fu talmente silenzio che l’unico rumore che sentiva era un eco leggero del vento che entrava nella campana tibetana del Guru.